La sua colpa? Quella di essere donna o meglio “femmina“.
E’ morta. Ammazzata. Giustiziata come il peggiore dei mostri.
Il motivo? Aver pugnalato un suo connazionale che aveva tentato di usarle violenza sessuale.
A 27 anni, per legittima difesa, è morta ammazzata Reyḥāneh Jabbāri.
Lo scorso 25 ottobre il suo collo è stato stretto attorno a una corda per farle cessare di vivere.
Non siamo in Italia ma a Karaj, regione di Alborz.
Essere donna, in questi posti, si paga con la vita. Essere donna vuol dire abbassare la testa allo stupro e alla vergogna. Essere donna vuol dire vivere una vita in bilico.
Per lei si era mobilitato l’intero mondo. Nell’ultima lettera indirizzata alla madre, la 27enne scriveva: “non voglio morire“.
No invece.
Lei, giovane israeliana, nata in una terra tanto belle quanto arida è l’ennesima vittima della sua stessa natura.
Una natura che l’ha fatta nascere donna… un essere inferiore… un essere che non può e non deve ribellarsi ai propri padroni.
Perché quando sei donna, devi tacere. Devi accettare e sottostare. Devi solo abbassare la testa ed essere compiacente verso chi vede in te un involucro.
Lei, Reyḥāneh, non voleva morire… voleva restare aggrappata alla vita per cambiarla e cambiare anche quella di molte altre donne.
Una corda al collo, però, ha decretato la sua fine. L’ennesimo agnello sacrificale di una società “malata“.
Un #femminicidio compiuto dallo stesso stato che non ha visto il gesto della ragazza come legittima difesa.
Reyḥāneh ha pagato, con la vita, il peso di essere nata donna.
Il peso di non aver acconsentito allo scempio. Il peso che molte persone, con la sua morte, invece dovranno avere sulla coscienza.